lunedì 12 novembre 2007

Di quando eravamo poveri

Avete mai visto qualcuno dei "cinegiornali" dell'Istituto Luce che un tempo venivano proiettati nelle sale cinematografiche prima dell'inizio del film? Mai un cenno alla cronaca nera quanto, in sua vece, la diva del momento sulla scaletta di un quadrimotore illuminata dalle lampade a incandescenza dei flash di una volta. Appena prima però, immancabilmente, un riferimento alla politica con un fugace riassunto del chi-ha-detto-cosa ma mai, tuttavia, in chiave tale da turbare i sonni di nessuno. Tutto condito da una voce ammiccante che oggi potrebbe al massimo pubblicizzare il mobilificio di quartiere. Essi potevano certo essere illusori e non già specchio della società ma, di questa, in qualche modo ancorché ammansiti dal regime (quello che fosse), avevano il buon gusto di non fomentare alcuno contro nessuno. Nessuna giaculatoria e nessun insulto al fiele.

A quell'epoca i tifosi, alla domenica sera, solevano andare alla ricevitoria di quartiere che esponeva fuori o alla vetrina, se la ricevitoria era anche bar, i risultati man mano che pervenivano. Il sogno di vincere alla Sisal (così si chiamava prima del totocalcio) era il massimo che si potesse chiedere al destino e alla dea bendata per comprarsi casa e per tirare il fiato in quell'economia familiare stretta al minimo per giungere -con dignità- alla fine del mese.

Chi andava allo stadio, si vestiva con giacca e cravatta, la sciarpa e il cappello. Prendeva il tram o andava a piedi per risparmiare. Allo stadio dove non c'era (come ancora non c'è nei campi inglesi) limitazione tra il campo di calcio e gli spalti, le grida -spesso in dialetto- davano voce a un tifo forte, leale e sincero come da sempre forte, leale e sincero è il senso di appartenenza e la trasposizione della voglia di farcela.

Eravamo poveri e invece eravamo tanto ma tanto ricchi.

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